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lunedì 13 maggio 2013

Schiuma (ma non andò veramente così)


Questo racconto è costituito di immagini di pura fantasia. Ogni passaggio puramente casuale è un riferimento a persone o luoghi esistenti e a fatti realmente accaduti.



“Morirò tra circa undicimilaventitré giorni. Circa.”
Ti ritrovi con il tuo pallido bicchiere di vermouth appoggiato al lavandino di questo lurido cesso in cui ti costringo ad ascoltare i miei più assurdi e viscerali lamenti.
“Undicimila giorni e poco più.”
Pensi che siano pochini, che sono messo male, che forse, se è proprio così poco che mi rimane, è ora che prenda il toro per le corna faccia qualcosa della mia vita e ti accendi quel mozzicone di toscano rimasto. Nervosamente, come fai sempre. Pensando a un miliardo di altre cose. Un orecchio ad ascoltare gli sproloqui sbiascicati di un ubriaco, che non reggi decisamente più e la mente che vaga per i fatti suoi e pensi che se non ci muoviamo da questo cazzo di cesso il numero di quei giorni, citato poco fa, si ridurrà drasticamente.

Dai un altro sorso al bicchiere di vetro scheggiato e mi guardi e non puoi fare a meno di rimanere qui. Vuoi o non vuoi sei qui perché ti ci ho portato io. Ti tengo per le palle bello.
“Se scrivessi una poesia al giorno da qui al momento della mia morte probabilmente diventerei qualcuno. Se non altro per la quantità. Un po’ come la vecchia storia del chi ce l’ha più lungo non credi?”
Continui a fare una specie di ghigno ad ogni boccata di sigaro, con la testa leggermente piegata a sinistra e il mento in su, sbuffando platealmente e spargendo il fumo denso, grigio bluastro, in tutto questo piccolo rifugio. Ti piace fartene avvolgere il volto, sentirne il velluto cocente sulla lingua, l’odore forte addosso. Forse lo fai solo per darmi fastidio e perché rimanga il fumo e il puzzo per qualsiasi altro stronzo entrerà dopo di noi, ma è un’ipotesi che non ti dispiace così tanto e continui imperterrito.
“Senti posso?!”
Mi guardi afferrare il bicchiere dal lavandino senza neanche attendere un cenno di risposta. Questo lo ammazzo. E sei ancora li a domandarti il perché non l’hai già fatto, hai sparso occhi pesti per molto meno, che il vermouth sparisce dal suo trasparente contenitore. Questo tizio, questo ammasso di peli arruffati di fronte a te, butta giù il tuo drink, svuota le guance gonfie e inghiotte con la faccia schifata.
“Ma che robaccia ti bevi cristo santo?”
Le mani ti prudono e di tutta risposta sputi della porcheria marroncina nel lavandino di fronte a te. Bisogna uscire da questo posto e alla svelta. Dai una spallata alla porta a soffietto facendogli fare un sonoro clack e poi giù per le scale a chiocciola, avvolto in una nuvola di fumo, fino alla pista. La musica è assordante e non si riesce a percepire nulla che abbia un senso. Scosti orde di sedicenni sedicenti punk, fighetti, col chiodo e le snikers, aggiustati e puliti, che ti si appiccicano addosso e sbandano abbrutiti da long island e vodka red-bull diluiti e di una qualità pessima e intanto senti che ti sono dietro, che ti sono alle spalle dicendoti:
“Bello che ci facciamo qui?! Ma non c’è neanche un amico disposto a farsi una birra di qualità fuori da questo schifo?”
La risposta è no e sai che lo so benissimo anche io quindi perché continuo a blaterare?
“Dovrei star già scrivendo la poesia giornaliera di oggi. Anzi sai che ti dico, dovremmo farlo insieme. E invece stiamo qui a buttar tempo, io, qui, non sento neanche quello che mi passa per la mente.”
Passi davanti a un gruppetto di ragazze che ballano tra loro in circolo, facendosi circondare da ragazzi con gli occhi di fuori e la bava alla bocca e fingendo che l’amica, a cui si avvinghiano, sia l’ultimo scoglio della perversione sessuale dal ‘68 a oggi. I ragazzi, a turno, provano ad avvicinarsi, immancabilmente respinti, qualcuno si butta in mezzo, qualcuno balla quasi da solo. Rituali d’accoppiamento. Una di loro ti getta le braccia al collo e ti fa fare uno, due, tre giri e poi torna starnazzando dalle comari. Mi senti ridere di gusto dietro e proprio non hai più voglia di ascoltarmi, così mandi a quel paese la ragazza e prosegui più veloce, a spintoni, riuscendo alla fine a raggiungere il bancone del bar. Ti giri a guardare e non mi vedi più. Era ora. Sospiri di sollievo e ti ordini un Glen Grant. Un whiskey te lo meriti. D'altronde sei qui stasera per divertirti e bere alla felicità. Così abbandoni tutti, i tuoi amici, chi ti segue con poco interesse, le tue donne passate, quelle che sono finite sotto i tuoi pantaloni calati, calate a loro volta, quelle che non ti hanno mai dato un appiglio e anche quelle che sono metà e metà, che non hai mai capito, abbandoni tutti quanti e ti gusti, il tuo sorso di Glen Grant, giallo paglierino, secco. Come solo certe sere possono essere. Mandi giù e ritorni alla realtà e senti Let’s call the whole thing off di Louis Armstrong ed Etta James. Uno swing, che cazzo c’entra uno swing? La canzone è tutta basata su differenze di pronuncia tra un lui e una lei che poi alla fine, lasciano perdere e si vogliono bene lo stesso. Ti giri verso la postazione del dj e pensi che quel tizio è veramente matto e, in fondo in fondo, va stimato per questo. La vista ti ricade sulla folla, un’infinità di deficienti che si muovono come polli e galline sotto l’effetto di ketamina, rievocando così tempi decisamente non loro. Tutto è un po’ retrò, tutto un po’ anni 70, ma ci sta.
Stai cominciando ad entrare in serata. Sei qui perchè vuoi festeggiare. Per una nuova conoscenza, per uno stupore. Che per definizione è inaspettato. Ma bello. Coinvolgente. Come un biglietto d’auguri, qualcosa che in qualsiasi momento della tua vita, qualsiasi cosa ti stia succedendo, non può far altro che rubarti un sorriso. Tu sei qui stasera per festeggiare quel sorriso. Questo è il momento per un altro drink. Come un altro ancora. Sei fatto così quando entri in serata sei esplosivo, turbolento. Energia che dal basso parte come una linea trasversale, da destra a sinistra e da sinistra a destra, che parte dalle mani e si sviluppa verso l’altro. Mani che vorrebbero abbracciarti e pugni chiusi a trattenere e trasmettere l’energia a chiunque ti sia attorno. Come una scossa. Sei fatto così. Quando dici una cosa ne pensi altre cento e quando pensi qualcosa la dici. Sei frenetico a un punto da sconvolgere l’ascoltatore e renderlo presente, ebbro dei tuoi pensieri. Ti butti in pista e cominci a cospargerti di gente attorno a te. La vita è questo: uno stato d’animo incorniciato di situazioni. Giuste o sbagliate che siano le cornici, le persone che ti circondano, il quadro è lo stato d’animo che ti pervade. Immagini una donna, bellissima con i capelli corti che le delineano il collo, non riesce a sentire una parola da quando è nata. Ma sarebbe li a ballare esattamente come te, senza sentire qual’è la musica, il ritmo, le parole. È uno stato d’animo in azione in una pista gremita di gente, con la strobo che conferisce a tutto la sacralità di uno slow-motion. Lei, come te, sarebbe il quadro nella cornice di una discoteca di un qualsiasi posto nel mondo. Ti fermi un attimo e guardi attorno, c’è perfino chi canta. Sorridi, ti hanno sempre fatto ridere quelli che in discoteca cantano le canzoni. Tutto ha l’aria maledettamente, schifosamente, irresistibilmente, dolcemente, fottutamente indie rock. Ti scappa da pisciare, cambiare l’acqua allo squalo, come dicono in molti da queste parti.
Torni in bagno. Richiudi un po’ barcollante la porta dietro di te e ti piazzi davanti alla tazza. C’è ancora l’odore del tuo sigaro nell’aria. Sorridi mentre ti tiri giù la zip. Porti una mano sul muro a sorreggerti e l’altra dietro, sul fianco. E aspetti che l’ispirazione arrivi. Un moderno Hemingway della pisciata. Anzi, dato il contesto è proprio il caso di dirlo, Hemingway ti spiccia casa. Cominci a pisciare. Fiumi di piscio che ti riempivano la vescica, di un giallo intenso, vanno a rimescolare quelli depositati li da un numero non meglio precisato di altri ragazzi venuti prima, alcol nelle forme più svariate, ma principalmente di birra, long island e vodka red-bull, filtrato dai reni che per effetto della caduta e dello sciabordio lì dentro crea sulla superficie una poltiglia bianca composta di bolle e bollicine di varie dimensioni aggregate fra loro. Schiuma.
“Questa immagine di te che pisci sbronzo alla John Wayne me la rivendo sicuro bello.”
Mi senti e ti chiedi come abbia fatto a ritrovarti e ad entrare e per istinto, ti blocchi da quell’atto godurioso. Forse non hai chiuso così bene la porta o forse prima con la spallata l’hai rotta. Più probabile che tu sia ubriaco. Sputi qualcosa nel piscio che scorreva impetuoso fino a un minuto fa. Sei ancora una volta insieme a quel pazzo in questo schifo di cesso. A questo pazzo. L’ispirazione t’è passata e sollevi lo sguardo e ti metti a leggere tutte quelle scritte sulle piastrelle bianche, che, come ogni pub che si rispetti reca su tutte le pareti del gabinetto.
“Cerchi il numero di qualche amichetto? Dai non t’arrabbiare sto giocando. Mi è venuta l’idea per un racconto sull’incomunicabilità. Io che ti parlo e tu che non rispondi e mi odi. Un po’ come parlare da solo, che poi è come non parlare per nulla. Che te ne pare?”
Sorridi, finisci la tua pisciata, sgrulli tutto e ti riabbottoni. Devi avere una mira che non è un granché perché hai vari schizzi sui pantaloni, ma vabbè, poca cosa, si asciugheranno. Certo devi essere ubriaco. Esci dal gabinetto e fissi quella strana scritta sulla porta, poi ti fermi davanti al lavandino e ti dai una sciacquata alle mani. Dallo specchio mi vedi. Sempre la solita barba arruffata e la faccia da schiaffi. Ti tocchi la guancia e senti gli stessi peli irsuti che vedi di fronte a te. Questo non è un gioco e la cosa ti sta creando non poca ansia. Ti avvicini allo specchio e vedi che lo faccio anch’io.
“Ti stupisci? Io voglio essere te. Tu ora sei me. Sono io che detto le regole qui dentro. Mettiti l’anima in pace, accenditi un toscano e goditi la serata bello. È un consiglio d’amico.”
Scuoti la testa e fai per uscire. Continui a guardare quella scritta che non ti lascia in pace. Devi uscire da qui. Afferri la porta e non si apre.
“Rilassati. Finirà anche questa storia ma per ora siamo tu ed io. Io. Questa serata va come dico io. È un rapimento morbido. Te l’ho sempre detto, sei il mio opposto, il fratello che non ho mai avuto.”
Ti giri e chiudi il pugno. Le dita premono sul palmo. Il colpo parte dalla pancia. Dal tronco. Scarica sulla spalla e sul gomito e colpisce il vetro. Che s’infrange. Senti un fischio nelle orecchie e continui. Destro, sinistro, destro. Pezzi di vetro si infrangono per tutto il bagno. Non senti più nessuna mia parola. Metti le mani, dalle nocche sanguinanti, in tasca in cerca di una biro. Vuoi rispondere al tizio che ha scritto quella frase sulla porta. Cerchi e non trovi nulla. Fino a che la tua mano destra tasta la scatola di toscani. La tiri fuori dalla tasca. Ne prendi uno già tagliato che ti avanzava da prima. Lo porti alle labbra e lo accendi. Sei tornato. Alla frenesia, alla turbolenza. Al vero te stesso. Guardi per terra e in un frammento di vetro mi vedi. Sorridi, o meglio, sogghigni. Apri con forza la porta e te ne vai. Qualcuno si lamenterà di questo schifo. Forse è il momento di un altro goccio.

Molignì






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P.S questo racconto è un non meglio riuscito omaggio a Danilo Cipollini e una bruttissima rivisitazione del suo racconto, il primo che gli udii leggere, "Schiuma".

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