Questo
racconto è costituito di immagini di pura fantasia. Ogni passaggio puramente
casuale è un riferimento a persone o luoghi esistenti e a fatti realmente
accaduti.
“Morirò tra circa undicimilaventitré giorni. Circa.”
Ti ritrovi con il tuo pallido bicchiere di vermouth appoggiato al
lavandino di questo lurido cesso in cui ti costringo ad ascoltare i miei più
assurdi e viscerali lamenti.
“Undicimila giorni e poco più.”
Pensi che siano pochini, che sono messo male, che forse, se è
proprio così poco che mi rimane, è ora che prenda il toro per le corna faccia
qualcosa della mia vita e ti accendi quel mozzicone di toscano rimasto.
Nervosamente, come fai sempre. Pensando a un miliardo di altre cose. Un
orecchio ad ascoltare gli sproloqui sbiascicati di un ubriaco, che non reggi
decisamente più e la mente che vaga per i fatti suoi e pensi che se non ci
muoviamo da questo cazzo di cesso il numero di quei giorni, citato poco fa, si
ridurrà drasticamente.
Dai un altro sorso al bicchiere di vetro scheggiato e mi guardi e
non puoi fare a meno di rimanere qui. Vuoi o non vuoi sei qui perché ti ci ho
portato io. Ti tengo per le palle bello.
“Se scrivessi una poesia al giorno da qui al momento della mia
morte probabilmente diventerei qualcuno. Se non altro per la quantità. Un po’
come la vecchia storia del chi ce l’ha più lungo non credi?”
Continui a fare una specie di ghigno ad ogni boccata di sigaro,
con la testa leggermente piegata a sinistra e il mento in su, sbuffando platealmente
e spargendo il fumo denso, grigio bluastro, in tutto questo piccolo rifugio. Ti
piace fartene avvolgere il volto, sentirne il velluto cocente sulla lingua,
l’odore forte addosso. Forse lo fai solo per darmi fastidio e perché rimanga il
fumo e il puzzo per qualsiasi altro stronzo entrerà dopo di noi, ma è
un’ipotesi che non ti dispiace così tanto e continui imperterrito.
“Senti posso?!”
Mi guardi afferrare il bicchiere dal lavandino senza neanche
attendere un cenno di risposta. Questo lo ammazzo. E sei ancora li a domandarti
il perché non l’hai già fatto, hai sparso occhi pesti per molto meno, che il
vermouth sparisce dal suo trasparente contenitore. Questo tizio, questo ammasso
di peli arruffati di fronte a te, butta giù il tuo drink, svuota le guance
gonfie e inghiotte con la faccia schifata.
“Ma che robaccia ti bevi cristo santo?”
Le mani ti prudono e di tutta risposta sputi della porcheria
marroncina nel lavandino di fronte a te. Bisogna uscire da questo posto e alla
svelta. Dai una spallata alla porta a soffietto facendogli fare un sonoro clack
e poi giù per le scale a chiocciola, avvolto in una nuvola di fumo, fino alla
pista. La musica è assordante e non si riesce a percepire nulla che abbia un
senso. Scosti orde di sedicenni sedicenti punk, fighetti, col chiodo e le snikers,
aggiustati e puliti, che ti si appiccicano addosso e sbandano abbrutiti da long
island e vodka red-bull diluiti e di una qualità pessima e intanto senti che ti
sono dietro, che ti sono alle spalle dicendoti:
“Bello che ci facciamo qui?! Ma non c’è neanche un amico disposto
a farsi una birra di qualità fuori da questo schifo?”
La risposta è no e sai che lo so benissimo anche io quindi perché
continuo a blaterare?
“Dovrei star già scrivendo la poesia giornaliera di oggi. Anzi sai
che ti dico, dovremmo farlo insieme. E invece stiamo qui a buttar tempo, io,
qui, non sento neanche quello che mi passa per la mente.”
Passi davanti a un gruppetto di ragazze che ballano tra loro in
circolo, facendosi circondare da ragazzi con gli occhi di fuori e la bava alla
bocca e fingendo che l’amica, a cui si avvinghiano, sia l’ultimo scoglio della
perversione sessuale dal ‘68 a oggi. I ragazzi, a turno, provano ad
avvicinarsi, immancabilmente respinti, qualcuno si butta in mezzo, qualcuno
balla quasi da solo. Rituali d’accoppiamento. Una di loro ti getta le braccia
al collo e ti fa fare uno, due, tre giri e poi torna starnazzando dalle comari.
Mi senti ridere di gusto dietro e proprio non hai più voglia di ascoltarmi,
così mandi a quel paese la ragazza e prosegui più veloce, a spintoni, riuscendo
alla fine a raggiungere il bancone del bar. Ti giri a guardare e non mi vedi
più. Era ora. Sospiri di sollievo e ti ordini un Glen Grant. Un whiskey te lo
meriti. D'altronde sei qui stasera per divertirti e bere alla felicità. Così abbandoni
tutti, i tuoi amici, chi ti segue con poco interesse, le tue donne passate,
quelle che sono finite sotto i tuoi pantaloni calati, calate a loro volta,
quelle che non ti hanno mai dato un appiglio e anche quelle che sono metà e
metà, che non hai mai capito, abbandoni tutti quanti e ti gusti, il tuo sorso
di Glen Grant, giallo paglierino, secco. Come solo certe sere possono essere.
Mandi giù e ritorni alla realtà e senti Let’s
call the whole thing off di Louis Armstrong ed Etta James. Uno swing, che
cazzo c’entra uno swing? La canzone è tutta basata su differenze di pronuncia
tra un lui e una lei che poi alla fine, lasciano perdere e si vogliono bene lo
stesso. Ti giri verso la postazione del dj e pensi che quel tizio è veramente
matto e, in fondo in fondo, va stimato per questo. La vista ti ricade sulla
folla, un’infinità di deficienti che si muovono come polli e galline sotto
l’effetto di ketamina, rievocando così tempi decisamente non loro. Tutto è un
po’ retrò, tutto un po’ anni 70, ma ci sta.
Stai cominciando ad entrare in serata. Sei qui perchè vuoi
festeggiare. Per una nuova conoscenza, per uno stupore. Che per definizione è
inaspettato. Ma bello. Coinvolgente. Come un biglietto d’auguri, qualcosa che
in qualsiasi momento della tua vita, qualsiasi cosa ti stia succedendo, non può
far altro che rubarti un sorriso. Tu sei qui stasera per festeggiare quel
sorriso. Questo è il momento per un altro drink. Come un altro ancora. Sei
fatto così quando entri in serata sei esplosivo, turbolento. Energia che dal
basso parte come una linea trasversale, da destra a sinistra e da sinistra a
destra, che parte dalle mani e si sviluppa verso l’altro. Mani che vorrebbero
abbracciarti e pugni chiusi a trattenere e trasmettere l’energia a chiunque ti
sia attorno. Come una scossa. Sei fatto così. Quando dici una cosa ne pensi
altre cento e quando pensi qualcosa la dici. Sei frenetico a un punto da
sconvolgere l’ascoltatore e renderlo presente, ebbro dei tuoi pensieri. Ti
butti in pista e cominci a cospargerti di gente attorno a te. La vita è questo:
uno stato d’animo incorniciato di situazioni. Giuste o sbagliate che siano le
cornici, le persone che ti circondano, il quadro è lo stato d’animo che ti
pervade. Immagini una donna, bellissima con i capelli corti che le delineano il
collo, non riesce a sentire una parola da quando è nata. Ma sarebbe li a
ballare esattamente come te, senza sentire qual’è la musica, il ritmo, le
parole. È uno stato d’animo in azione in una pista gremita di gente, con la strobo
che conferisce a tutto la sacralità di uno slow-motion. Lei, come te, sarebbe
il quadro nella cornice di una discoteca di un qualsiasi posto nel mondo. Ti
fermi un attimo e guardi attorno, c’è perfino chi canta. Sorridi, ti hanno
sempre fatto ridere quelli che in discoteca cantano le canzoni. Tutto ha l’aria
maledettamente, schifosamente, irresistibilmente, dolcemente, fottutamente
indie rock. Ti scappa da pisciare, cambiare l’acqua allo squalo, come dicono in
molti da queste parti.
Torni in bagno. Richiudi un po’ barcollante la porta dietro di te
e ti piazzi davanti alla tazza. C’è ancora l’odore del tuo sigaro nell’aria.
Sorridi mentre ti tiri giù la zip. Porti una mano sul muro a sorreggerti e
l’altra dietro, sul fianco. E aspetti che l’ispirazione arrivi. Un moderno
Hemingway della pisciata. Anzi, dato il contesto è proprio il caso di dirlo, Hemingway
ti spiccia casa. Cominci a pisciare. Fiumi di piscio che ti riempivano la
vescica, di un giallo intenso, vanno a rimescolare quelli depositati li da un
numero non meglio precisato di altri ragazzi venuti prima, alcol nelle forme
più svariate, ma principalmente di birra, long island e vodka red-bull,
filtrato dai reni che per effetto della caduta e dello sciabordio lì dentro
crea sulla superficie una poltiglia bianca composta di bolle e bollicine di
varie dimensioni aggregate fra loro. Schiuma.
“Questa immagine di te che pisci sbronzo alla John Wayne me la
rivendo sicuro bello.”
Mi senti e ti chiedi come abbia fatto a ritrovarti e ad entrare e per
istinto, ti blocchi da quell’atto godurioso. Forse non hai chiuso così bene la
porta o forse prima con la spallata l’hai rotta. Più probabile che tu sia
ubriaco. Sputi qualcosa nel piscio che scorreva impetuoso fino a un minuto fa.
Sei ancora una volta insieme a quel pazzo in questo schifo di cesso. A questo pazzo. L’ispirazione t’è passata
e sollevi lo sguardo e ti metti a leggere tutte quelle scritte sulle piastrelle
bianche, che, come ogni pub che si rispetti reca su tutte le pareti del
gabinetto.
“Cerchi il numero di qualche amichetto? Dai non t’arrabbiare sto
giocando. Mi è venuta l’idea per un racconto sull’incomunicabilità. Io che ti
parlo e tu che non rispondi e mi odi. Un po’ come parlare da solo, che poi è
come non parlare per nulla. Che te ne pare?”
Sorridi, finisci la tua pisciata, sgrulli tutto e ti riabbottoni.
Devi avere una mira che non è un granché perché hai vari schizzi sui pantaloni,
ma vabbè, poca cosa, si asciugheranno. Certo devi essere ubriaco. Esci dal
gabinetto e fissi quella strana scritta sulla porta, poi ti fermi davanti al
lavandino e ti dai una sciacquata alle mani. Dallo specchio mi vedi. Sempre la
solita barba arruffata e la faccia da schiaffi. Ti tocchi la guancia e senti
gli stessi peli irsuti che vedi di fronte a te. Questo non è un gioco e la cosa
ti sta creando non poca ansia. Ti avvicini allo specchio e vedi che lo faccio
anch’io.
“Ti stupisci? Io voglio essere te. Tu ora sei me. Sono io che
detto le regole qui dentro. Mettiti l’anima in pace, accenditi un toscano e
goditi la serata bello. È un consiglio d’amico.”
Scuoti la testa e fai per uscire. Continui a guardare quella scritta che non ti lascia in pace. Devi uscire da qui. Afferri la porta e non si apre.
“Rilassati. Finirà anche questa storia ma per ora siamo tu ed io.
Io. Questa serata va come dico io. È un rapimento morbido. Te l’ho sempre
detto, sei il mio opposto, il fratello che non ho mai avuto.”
Ti giri e chiudi il pugno. Le dita premono sul palmo. Il colpo
parte dalla pancia. Dal tronco. Scarica sulla spalla e sul gomito e colpisce il
vetro. Che s’infrange. Senti un fischio nelle orecchie e continui. Destro,
sinistro, destro. Pezzi di vetro si infrangono per tutto il bagno. Non senti
più nessuna mia parola. Metti le mani, dalle nocche sanguinanti, in tasca in
cerca di una biro. Vuoi rispondere al tizio che ha scritto quella frase sulla
porta. Cerchi e non trovi nulla. Fino a che la tua mano destra tasta la scatola
di toscani. La tiri fuori dalla tasca. Ne prendi uno già tagliato che ti
avanzava da prima. Lo porti alle labbra e lo accendi. Sei tornato. Alla
frenesia, alla turbolenza. Al vero te stesso. Guardi per terra e in un
frammento di vetro mi vedi. Sorridi, o meglio, sogghigni. Apri con forza la
porta e te ne vai. Qualcuno si lamenterà di questo schifo. Forse è il momento
di un altro goccio.
Molignì
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P.S questo racconto è un non meglio riuscito omaggio a Danilo Cipollini e una bruttissima rivisitazione del suo racconto, il primo che gli udii leggere, "Schiuma".
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